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Francesco Furlan / Gabriel Siemoneit / Hartmut Wulfram

Exil und Heimatferne in der Literatur des Humanismus von Petrarca bis zum Anfang des 16. Jahrhunderts

L’esilio e la lontananza dalla patria nella letteratura umanistica dal Petrarca all’inizio del Cinquecento

Narr Francke Attempto Verlag Tübingen

Inhalt

Fußnoten

Einleitung

Aus dem Pool zahlreicher neuerer Publikationen zu diesem Themenkomplex seien etwa hervorgehoben: Andreas Bihrer / Sven Limbeck / Paul Gerhard Schmidt (Hgg.): Exil, Fremdheit und Ausgrenzung in Mittelalter und früher Neuzeit, Würzburg 2000; Hermann Wiegand: Hodoeporicon, in: Harald Fricke (Hg.): Reallexikon der deutschen Literaturwissenschaft, Bd. 2, Berlin / New York 2000, 62‒64; George Hugo Tucker. Homo viator. Itineraries of Exile: Displacement and Writing in Renaissance Europe, Genève 2003; Domenico Defilippis: Modelli e forme del genere corografico tra Umanesimo e Rinascimento, in: Astrid Steiner-Weber (Hg.): Acta Conventus Neo-Latini Upsaliensis. Proceedings of the Fourteenth International Congress of Neo-Latin Studies (Uppsala 2009), Leiden / Boston 2012, 25‒79; Doerte Bischoff / Susanne Komfort-Hein: Einleitung: Literatur und Exil. Neue Perspektiven auf eine (historische und aktuelle) Konstellation, in: dies. (Hgg.): Literatur und Exil. Neue Perspektiven, Berlin / Boston 2013, 1‒19; David Marsh: The Experience of Exile Described by Italian Writers. From Cicero Through Dante and Machiavelli Down to Carlo Levi, Lewiston (NY) / Lampeter (UK) 2014; Andrea Voß: Reisen erzählen. Erzählrhetorik, Intertextualität und Gebrauchsfunktionen des adligen Bildungsreiseberichts in der Frühen Neuzeit, Heidelberg 2016; Doerte Bischoff / Susanne Komfort-Hein (Hgg.): Handbuch Literatur & Transnationalität, Berlin / Boston (angekündigt für Oktober 2018).

Exul o peregrinus?

Fenzi 2013, 365–402. Vi si troverà anche un piú abbondante repertorio di citazioni petrarchesche.

Segnalo súbito gli importanti Marcozzi 2011; Marcozzi 2015, 223–237; e Gagliano 2015.

Cito da Petrarca 2002, e dall’ed. Petrarca 2013, avvertendo che per le note resta sempre utile anche l’edizione con il solo testo inglese a cura di Conrad H. Rawski (Petrarca 1991). Quanto alle due Familiares, esse come molte altre dei primi libri hanno carattere fittizio, come da tempo ha riconosciuto Billanovich 1947, 47 sgg.

Al proposito ho allineato molte e decisive citazioni dalle opere di Seneca o a lui anticamente attribuite attraverso i florilegi e le opere pseudo-senecane in Fenzi 2015. Per il tema dell’esilio presso i latini m’accontento di rinviare a Brescia 2016, e alle indicazioni anche bibliografiche che se ne possono trarre. Ma è ancora utile per le numerose citazioni di Cicerone e Seneca Alfred Giesecke, De philosophorum veterum quae ad exilium spectant sententiis, Lipsia 1891, anche se guarda soprattutto al mondo greco.

Diciamo súbito che in questa parte centrale del capitolo del De remediis il tema platonico-agostiniano della vita quale ‹esilio terreno› dell’anima non è quello che al Petrarca direttamente interessa, anche se resta sullo sfondo quale orizzonte ultimo del discorso. Egli infatti doverosamente lo inserisce nel tema dell’esilio vero e proprio e lo corrobora con una citazione di san Paolo, Hebr., 13, 14: «Non è qui che abbiamo una città destinata a durare», ma se ne serve soprattutto per suggerire una possibilità alternativa e però non del tutto coincidente rispetto all’argomento affrontato, che mantiene in ogni caso la propria terrena autonomia. Al proposito, si leggano le esemplari parole dirette a Filippo di Cabassoles per consolarlo della morte del fratello, in Fam. 2, 1, 14–15, ove la questione è perfettamente articolata attorno alla citazione di Ovidio, Fast. 2, 493, e a quella appena vista di san Paolo: «Forse la morte di tuo fratello è sembrata piú dolorosa perché l’ha colto lontano dalla patria. Ma noi non siamo degli ignoranti, e sappiamo che dal Poeta è stato detto con gran verità che «patria è al forte ogni terra»; e anche piú vero è il detto dell’Apostolo: «Non abbiamo qui una stabile dimora, ma ne cerchiamo un’altra». Queste due sentenze sembrano contrarie, ma non sono. Ognuno dei due autori, secondo il suo carattere, espresse brevemente il proprio pensiero, e sebbene in modo diverso, tuttavia con egual verità. Se credi al Poeta, tuo fratello non poté morire fuori di patria; se credi all’Apostolo, tutti moriamo fuori di patria, per potere alla fine in patria tornare» (trad. Bianchi, con qualche ritocco alla punteggiatura: Nisi forte fratris tui mors ideo acerbior visa est, quod eum procul a finibus patriis invasit. Sed non sumus usque adeo rerum ignari; scimus a Poeta verissime dictum esse quod «omne solum forti patria est», et tamen hoc vero verius est quod ait Apostolus: ‹Non habemus hic manentem civitatem, sed aliam [futuram] inquirimus›. Videntur hec sibi invicem adversa, sed non sunt; quisque pro diversitate loquentium satis breviter quod sentiebat expressit, et quamvis aliter atque aliter, uterque tamen vere. Si Poetam sequeris, non potuit frater tuus extra patriam suam mori; at si credis Apostolo, omnes extra patria morimur, ut sic tandem in patriam revertamur). La citazione di san Paolo torna anche in Fam. 2, 1, 14; Fam. 4, 2, 5 testo γ ; 23, 2, 34; in Petrarca 2004, 82; Petrarca 2005b, 50–52. E per altri analoghi passi, vedi Fam. 6, 3, 62; 10, 5, 2; 14, 1, 43; 21, 9, 14; 23, 4, 2, etc.; Sen. 7, 1, 95–97 e 157; 10, 5, 1, etc., e in generale le grandi opere morali del Petrarca, a cominciare dal Secretum e dal De otio. Vd. anche Rvf 285, 5, e Tr. Mortis 2, 74.

De rem. 2, 67, 4: bonos odit; et is quoque multiceps tyrannus nunquam sui similem pepulisset. Per il sillogismo petrarchesco che, in funzione filo-viscontea, fa di un re malvagio un tiranno, e di un ‹buon› tiranno un re, vd. Fenzi 2012, 203–205. E si accenni almeno al fatto che il Petrarca ha sempre detto e fatto capire che il potere deve essere di uno solo, e di essere avverso ai regimi repubblicani composti da oligarchie intrinsecamente ‹tiranniche›: cosí, nei confronti della pochissimo amata Firenze, ma, seppure in maniera piú dolce, anche nei confronti di Venezia.

Cicerone, Tusc. 5, 108: Socrates quidem cum rogaretur cuiatem se esse diceret, ‹Mundanum› inquit; totius enim mundi se incolam et civem arbitrabatur.

Tusc. 5, 109: Quanti vero ista civitas aestimanda est, ex qua boni sapientesque pelluntur? Una variante del concetto è in Fam. 20, 1, 20: «in qualsiasi parte del mondo si abbia cura della libertà altrove negletta, là è la mia patria» (siqua iam toto orbe neglecte libertatis cura est, eam in patria mea esse).

Theb. 8, 320: omne omini natale solum.

«Paor dit: ‹Tu seras chaciez en exile›. Seurtez respont: ‹Le païs ne m’est contredit, mes le leuc; car tout ce qui est desouz le ciel est mon païs […] Toutes terres sont païs au proudome autresi come la mer au poisson›». Brunetto vi combina Ovidio con un passo del De remediis fortuitorum, opera allora attribuita a Seneca, ma forse di Martino vescovo di Braga, in Portogallo, alla quale il Petrarca s’è direttamente ispirato per il suo De remediis (Seneca 1878, 450: ExulabisNon patria mihi interdicitur, sed locus. In quamcunque terram venio, in meam venio. Nulla terra exilium est, sed altera patria est). Vedi De rem. 1, Praef., 10: il trattatello appare anche nella lista dei libri favoriti del Petrarca, i libri mei peculiares, tra i libri ‹morali› (vd. Ullman 1973, 113–33). E proprio a questo passo del De remediis fortuitorum, probabilmente attraverso il ‹maestro› Brunetto, aveva rinviato anche Dante, Epist. 3, 8 [5], esortando l’amico Cino da Pistoia a sopportare l’amara esperienza dell’esilio (vd. Mazzoni 1967, XXXV–XXXVI), rivendicando dunque per sé, attraverso la sentenza generale, la qualifica di «forte» e «virtuoso».

Didasc. 3, 20, Patr. Lat. 127, 778: Fortis autem jam cui omne solum patria est, perfectus vero cui mundus totus exilium est.

De rem. 2, 67, 12: I sponte: peregrinatio erit, non exilium; ibid., 20: Pulsum te pessimis, optimis insere, neque te patria, sed patriam te indignam rebus proba. Sentiat illa quid perdidit, tu nil perdidisse te sentias […] Illi se solos linqui doleant, tu te comitatum gaudeas proficisci, neque te in tergum respicias neque reditum cogites, neque cum illis esse cupias qui te cupiunt abesse: neque demum quod a te fieri debuit, ab alio factum egre feras. In chiave piú leggera nella Fam. 9, 13, 33, Petrarca scrive a Filippo di Vitry, a proposito dei viaggi del cardinale Guy de Boulogne: «Anche se tu lo definisci un esule, a me sembra che sia un felicissimo viaggiatore» (Voces licet exulem, ille michi videbitur felicissimus peregrinus).

Fam. 24, 4, 2: neque tamen in vita tua quicquam preter constantiam requiro, et philosophice professioni debitum quietis studium et a civilibus bellis fugam, extincta libertate ac sepulta iam et complorata republica.

Ha attirato la mia attenzione su questo passo Mazzoni 1967, XXXV–XXXVI. Anche Seneca elogia Lucilio per la sua intenzione di ritirarsi a vita privata, a dispetto di quel che parrebbe imporre la morale stoica. Solo a determinate condizioni, infatti, il saggio si impegnerà nella vita politica: Nec ad omnem rem publicam mittimus nec semper nec sine ullo fine, ecc. (Epist. 68, 1 sgg.).

Ho già toccato di questo tipico tema petrarchesco in Fenzi 2011, 49–88, e in Fenzi 2015, 11–42, dai quali riprendo e sviluppo alcune indicazioni.

Per questo elemento portante dell’intero mondo petrarchesco, mi limito qui a rinviare alla tarda lettera all’amico Filippo di Cabassole vescovo di Cavaillon, Fam. 24, 1, che porta il titolo: Ad Philippum Cavallicensem episcopum de inextimabili fuga temporis.

Petrarca 1992, 168: «Non ti nascondere dietro un dito, come usa dire: quello che pensi e quello che fai, l’ho tutto sotto gli occhi. E quel tuo vantarti d’aver fuggito le città e d’aver cercato i boschi non vale come scusa, ma come mutamento di colpa. Si può arrivare allo stesso scopo per molte strade, e tu, credimi, anche se hai abbandonato la strada calcata da tutti, ti dirigi per una via traversa a quella medesima meta dettata dall’ambizione che dici di aver disprezzato. Ad essa ti conducono il disimpegno, la solitudine, la grande indifferenza per le faccende pratiche e questi tuoi studi, scopo dei quali è pur sempre la gloria» (Neu te, ut aiunt, digito contexeris; quicquid cogitas, quicquid agis, ante oculos meos est. Et quod fuga urbium silvarumque cupidine gloriaris, non excusationem sed culpe mutationem arguit. Multis namque viis ad unum terminum pervenitur; et tu, michi crede, licet calcatam vulgo deserueris viam, tamen ad eandem quam sprevisse te dicis ambitionem obliquo calle contendis; ad quam otium, solitudo, incuriositas tanta rerum humanarum, atque ista tua te perducunt studia, quorum usque nunc finis est gloria). Per questo sottile, tortuoso modo di andare in cerca della gloria mostrando di volerla evitare, vd. Girolamo, Epist. 22, 27, ad Eustochium, contro coloro che «vogliono piacere nel momento stesso nel quale mostrano di disprezzare il fatto di piacere, e in maniera stupefacente vanno in cerca di lodi mentre sembrano evitarle» (in hoc ipso placere cupiunt, quod placere contemnunt; et mirum in modum laus, dum vitatur, adpetitur), e Agostino, Conf. 10, 38, 63; De civ. Dei 5, 20.

Le poche eccezioni non incrinano l’assunto generale: vd. per esempio l’elogio del fratello Gherardo, che non è fuggito dal convento al tempo della peste (Fam. 26, 2), o quello dei soldati romani e di Scipione che eroicamente combatterono contro Annibale presso il Ticino (Sen. 2, 1, 11). Piú notevole il caso di Epyst. 1, 14, Ad seipsum, 71–2, ove il senso è capovolto: la fuga è quella da se stesso, verso i presunti bene esteriori, e da essa occorre finalmente tornare indietro: «continuerai a fuggire te stesso e il tuo bene, e a inseguire beni esteriori? Orsú, ferma la tua fuga!» (teque tuumque bonum fugiens aliena sequeris? / Siste, age, siste fugam!).

Il Petrarca ricavava la sentenza da Aristotele, Eth. Nic. VIII 2, 1155b5: Et Heraclitus contrarium conferens, et ex differentibus optimam armoniam; et omnia secundum litem fieri, da lui intesa alla luce di un pessimismo radicale che oggi potremmo ben definire come ‹leopardiano›. Vd. ora il testo in Petrarca 2013, 914–949. Ma, per le note che lo illustrano, mi permetto di rinviare anche all’antologia da me curata, Petrarca, Rimedi 2009, 144–185.

Le incertezze sulla data ruotano attorno al fatto che il Petrarca continua dicendo che abbandonerà la casa di Valchiusa per andarsene in un altro paese (in alias oras ibo), sí che viene fatto di collegarla a uno dei suoi distacchi dalla Provenza: ma egli cita anche Plauto (la Casina in particolare), un autore che pare abbia letto solo negli anni ’50–’51 (vd. Billanovich 1947, 49–50).

1, 10, 9. Cito da De Vita Solitaria 1990, 123: Quid ergo? Ad meum illud familiare consilium recurro, ut pestes quas fugare non possumus, fugiamus; in quam rem unicum solitarie vite portum ac profugium scio.

De remediis 2, 90, 1: De minutis tediis rerum variarum, ed. Dotti 2013, 1546: Ruris ergo silentium silvasque ama: que ferri fugarique nequeunt fugienda sunt.

Fam. 7, 7, 9: Quid autem torquebor? Ibunt res quo sempiterna lex statuit; mutare ista non possum, fugere possum. Per una interpretazione di questa discussa lettera, vd. Fenzi 2011.

Fam. 19, 7, 4.

A una fuga siffatta alluderà anche il sonetto precedente, Rvf 113, 1–3: «Qui dove mezzo son, Sennuccio mio […] venni fuggendo la tempesta e ’l vento» (vd. il commento di Rosanna Bettarini, ad loc., nella sua ed. del Canzoniere, 2005, e per il vento, la nota ai vv. 71–72 dell’egloga). Sui sonetti anti-avignonesi, e in particolare l’opposizione Avignone / Valchiusa, vd. Berisso 2011, 7–24 (vd. 11: «Insomma, la topografia dei sonetti anti-avignonesi trova eco nei Rerum Vulgarium Fragmenta (e non solo in essi) in una sottile rete di riscontri che ne dettaglia sempre piú la valenza simbolica e ideologica all’insegna di una scissione insanabile»). Ma si veda pure, specie nelle ultime pagine, Suitner 1985, 201–210.

Sine nom. 2, 11: «Nel mezzo di tante tenebre non vedo cos’altro serva a te e a me oltre la fuga» (Ego enim tantis in tenebris quid tibi aut etiam quid michi preter fugam expediat non video); Sine nom. 13, 4: «Non ho niente altro da poter opporre a tante forze contrastanti tranne la compassione dovuta alla madre Chiesa e, come vedi, il piacere della fuga con la quale liberare i miei occhi da uno spettacolo cosí triste» (ego enim nichil habeo quod tam multis contranitentibus prestare possim, preter commiserationem matri debitam et michi placitam – ut vides – fugam, qua oculos meos tam mesto liberem spectaculo) (nell’ed. a cura di Laura Casarsa, 2010, rispettivamente 102 e 118).

Fam. 15, 7, 19–20: Fac quod nitidi quidam homines solent, nec homines tantum sed candida quedam animalia sordesque timentia, que ubi cavernulis egressa loca circum ceno obsita conspexerint, pedem retrahunt et intra latibulum suum se recipiunt. Tu quoque nullum quietis ac solatii locum toto orbe reperiens, intra cubiculi tui limen et intra te ipsum redi; tecum vigila tecum loquere tecum sile tecum ambula tecum sta, ne dubita solus esse, si tecum es.

Esclusa dalla raccolta canonica delle Epystole per questa sua non ortodossa caratteristica metrica (anche se talvolta in passato confusa con quelle), è stata edita criticamente e tradotta da Feo in Feo 1991, 373–381 (n. 244. La scia del poeta. Un empolese raccoglie carmi petrarcheschi ad Avignone, a proposito del cod. Riccardiano 688 sul quale l’edizione è basata).

Il racconto della rischiosa fuga da Parma assediata è nella Fam. 5, 10, scritta poco dopo i fatti a Barbato da Sulmona. Va ripetuto che a Verona il Petrarca scoprí e ricopiò di suo pugno le lettere di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto; che tra l’agosto e la prima metà d’ottobre riuscí, come sembra, a tornare a Parma, e che alla fine di quello stesso mese si mise in viaggio per Avignone.

La questione della data è stata ampiamente discussa e risolta senza dubbio alcuno, sviluppando le indicazioni proposte già da Diana Magrini e Fortunato Rizzi, da Wilkins 1963, 453–460, ora in Wilkins 1978, 255–266, al quale rimando. Il Wilkins vi ricorda d’avere semplicemente ricalcato, in un primo tempo, l’opinione d’Arnaldo Foresti, che datava l’epistola al 1353 (Foresti 1928, 270–278: ora nella nuova edizione «corretta e ampliata dall’autore» a cura di Antonia Tissoni Benvenuti, 1977, 280–287; Wilkins 1955, 156–158). Conferma la data stabilita dal Wilkins anche Rico 1974, 344 n. 321, e 394–395.

Vv. 17–18: «Qui [a Valchiusa] a te sarà restituita Partenope, a me la dolce Parma, non scosse l’una da tradimenti, l’altra da chiamate alle armi» (qui come in seguito la trad. è di M. Feo). Per l’analisi di questa epistola vd. Dotti 1987, 136–140.

Vv. 1–2, e 55–56: «Esule dall’Italia, cacciato dalla furia delle lotte civili, qui mi sono rifugiato in parte spontaneamente, in parte costretto»; «Tutto questo, nobile presule, ti ha scritto nei boschi il tuo non so piú se pellegrino o esule del Sorga».

Fam. 2, 3, 1, Aliqua ergo vis dolorque aliquis interveniat oportet, ut exilium verum sit. Id si recipis, iam cernis in tua manu situm, utrum exul an peregrinus sis: si lacrimans, si mestus, si deiectus exivisti, exulem te proculdubio noveris; si vero nichil proprie dignitatis oblitus neque coactus, sed libens et eodem habitu frontis atque animi quo domi fueras, iussus exire paruisti, peregrinaris profecto, non exulas, ecc. (vd. anche Fam. 9, 13, 33, citata sopra a nota 12). Fonte letterale di Petrarca nel caso è lo pseudo-senecano De remediis fortuitorum (ma probabilmente di Martino vescovo di Braga: vd. sopra nota 10), 8, 2, 450: «La patria è dovunque tu stia bene. E ciò che fa sí che il bene sia tale non è in un luogo ma nell’uomo: voglio dire che è in suo potere determinare la sua sorte: se è sapiente, sarà in viaggio, se è uno stolto, sarà in esilio» (Patria est ubicumque bene es. Illud autem, per quod bene est, in homine, non in loco est. In ipsius, inquam, potestate est, quid sit illa fortuna: si enim sapiens est peregrinatur, si stultus, exulat). Ricordo appena che la dialettica tra la peregrinatio cristiana e l’esperienza storica dell’exilium rappresenta uno dei nodi della nostra lettura di Dante, come mostra bene Brilli 2013 (ma vd. pure Brilli 2012, in specie il cap. 2, 121–270), che nelle sue belle pagine implicitamente suggerisce un possibile parallelo tra Firenze e Avignone quali civitates diaboli, e dunque, di là dalle evidenti differenze, un complesso rapporto sul tema tra Dante e Petrarca.

Vv. 41–42: Videris ipse tamen de te, cui celitus almum / contigit ingenium, fragilem subducere scalmum.

De rem. 2, 67, 10: Exilium breve cito te patrie tue reddet, longum vero aliam tibi patriam dabit.

Marcozzi 2015, 235–237.

Bibliografia

Le note al l. 2 del De remediis sono nel vol. 4, mentre il 5 è occupato da ricchi indici.

Della scrittura petrarchesca come esperimento dell’esilio

Citiamo per cominciare: Marcozzi 2011; Fenzi 2013; Marcozzi 2015a; Rigo 2016a.

V. Fam. I 1,22 (in exilio genitus; cito da Petrarca 1992a, 245); la celebre Sen. autobiografica della fine del 1367 all’amico d’infanzia Guido Sette, X 2, 4 (Et primam quidem illam vite partem, tu domi tue, ego in exilio meo egi; v. Pétrarque 2002–2013 [III, 2004], 243); e l’unica Sen. XVIII, la famosa Posteritati, 13 (Pétrarque V, 2013, 241).

Di questo continuo e inquieto vagabondaggio, l’ultima espressione poetica, sotto il segno delle sconforto (e dell’approdo ad altra riva), in Rvf 366, 82–84: «Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno, / cercando or questa or quel’altra parte, / non è stata mia vita altro ch’affanno» (cito da Petrarca 22004b).

V. Fam. II 3, Ad Severum Apenninicolam, Consolatoria super exilio, Petrarca 1992a, 300–308. La missiva è datata agli anni 1354–1360 e non si sa niente del destinatario (Antognini 2008, 361 e 437).

V. il testo piú impegnativo in questo senso, il capitolo di Rem. II 67, «De exilio» (Pétrarque 2002, I, 826–832. Ma v. anche Fam. II 4, Ad eundem Severum et de eadem re (cfr. nota precedente), Petrarca 1992a, 308–315.

Pétrarque 2002, 828. Sull’orbis terre quasi domus angusta, v. anche Rem.  II 125, 14, Pétrarque 2002, 1108. La morte è la strada piú breve e diretta per la patria celeste (Rem. II 124, 8, Pétrarque 2002, 1102).

Alludiamo al concetto essenziale adoperato nel suo bel libro da Stroppa 2014: v. in particolare 134–138; e anche 198 (a proposito di Rvf 126).

Infatti, mundanus sum, «sono cittadino del mondo», affermava già Socrate, secondo il celebre detto riferito da Ratio in Rem. II 67, 10 (Pétrarque 2002, 828).

Rem. II 67, 12, in Pétrarque 2002, 830 (a Dolor che si lamenta di essere condannato all’esilio, Ratio risponde che se vorrà, sarà un peregrinare, un viaggio, non un esilio: I sponte: peregrinatio erit, non exilium. Et memento quibusdam exitum, quibusdam vero reditum pro exilio fore.). «Esilio di questo mio peregrinare terreno» («peregrinationis exili[um]»), scrive il Petrarca in Fam. VII 12, 5, in Petrarca 1992a, 536, per definire il nostro passaggio quaggiú, in occasione della scomparsa dell’amico poeta Franceschino degli Albizzi (lo stesso che viene citato in diversi luoghi dell’opera petrarchesca: v. Rvf 287, 7 e Tr. Cup. IV, 37; e v. le Fam. VII 11 e 12).

La distinzione è ribadita in De rem. II 125, dove, al § 6, in Pétrarque 2002, 1104, si afferma con vigore che la patria è là dove si sta bene. Noteremo en passant, per alludere alle implicazioni edipiche dell’osservazione, che, nella famosa lettera familiare del 1359 a Giovanni da Certaldo (Boccaccio) sulle calunnie degli invidiosi, il Petrarca sottolinea come l’ardore nello studio crebbe in Dante in ragione dell’esilio, un Dante mosso dal solo desiderio di gloria, mentre il padre dello scrivente, compagno di sfortuna del primo, si rassegnò per ragioni domestiche all’ingiustizia infertagli (Fam. XXI 15, 7, in Petrarca 1992a, 1129): ove si percepisce una certa qual ambiguità, tra tenerezza filiale e una punta di disprezzo? V. Marcozzi 2015b.

V. Gentili 2016, 308–320, e, anche per le implicazioni politiche, Stroppa 2014, 161–162.

Cfr. Fam. II 4, 26, in Petrarca 19992, 313. D’altronde, ci sono persone che non stanno mai cosí male come quando sono in patria (Rem. II 67, 12, in Pétrarque 2002, 830: Sunt quibus nusquam peius quam in patria sua sit.)

Cfr. Rem. II 67, 10, in Pétrarque 2002, 828.

Cfr. Posteritati 8, in Pétrarque V, 2013, 239.

Quotiens enim, convalescendi avidus atque huius consilii non ignarus, fugam retentavi! et licet varias simulaverim causas, unus tamen hic semper peregrinationum rusticationumque mearum omnium finis erat libertas; quam sequens, per occidentem et per septentrionem et usque ad Oceani terminos longe lateque circumactus sum. Quod quantum michi profuerit, vides. […] Fugi enim, sed malum meum ubique circumferens. Cosí nel terzo libro del Secretum: v. Petrarca 1992b, 232–234.

Cfr. Fenzi 2013.

Su cui si veda Blanc 1990; Fenzi 2003, 493–517 («Tra Dante e Petrarca: il fantasma di Ulisse»).

Cfr. Fam. I 1, 21, in Petrarca 1992a, 245. Noteremo che gli ulixei errores vi compaiono a prossimità immediata dell’autodefinizione in veste di esule (§ 22).

V. per esempio Rem. II 125, 2, in Pétrarque 2002, 1104; ma le formule simili abbondano nell’opera petrarchesca: mi sia consentito rinviare a Guérin 2014.

Il naufragio, però, come evento naturale, non come castigo, non è mai eventualità remota, e informa o dovrebbe informare la nostra coscienza di vivere una vita labile, fragile (Rem. I 88, sulle illusioni della prospera navigatio, in Pétrarque 2002, 380–382; e v. il simmetrico capitolo II 54, sul valore metaforico del naufragio, in Pétrarque 2002, 782–784). V. anche la famosa descriptio tempestatis sine exemplo gravissime di Fam. V 5, in Petrarca 1992a, 442–447.

Cosí come concludeva al valore metadiscorsivo della figura di Ulisse evocata sulla soglia delle Familiares Carrai 2003, 171–173. V. anche, per qualche osservazione comprendente il Canzoniere, Vecce 2005, in part. 198–200 e 227–228.

Lasciamo da parte la questione del porto supremo, cui ci conduce il nostro viaggio (transito) terreno (il «grave exiglio» di Rvf 285, 5; quello per cui si «fugge per piú non esser pellegrino», Rvf 331, 23).

Valchiusa, cui è dedicato un consistente paragrafo aggiuntivo, il primo, alla fine del Testamentum: l’insistenza con cui dichiara la sua volontà che la casa valchiusana vada ai discendenti di Raymond Monet (figli o nipoti) dice l’importanza che ha in quest’attaccamento l’affetto ben documentato per la figura a suo modo familiare del fattore.

La casa avignonese essendo essa stessa exilium: v. Posteritati 18, in Pétrarque V, 2013, 243 (Domum voco avinionense illud exilium ubi ab infantie mee fine fueram).

Fam. VIII 3, 11–12, in Petrarca 1992a, 565–566.

Interessante rilevare l’equazione diverticulum-portus in Posteritati 22, in Pétrarque V, 2013, 245 (quando si ritrae, allorquando cercava di fuggire Avignone che lo disgustava, diverticulum aliquod quasi portum querens – ricerca conclusasi con l’acquisto per l’appunto della casa sita nella vall[is] perexigu[a] sed solitari[a] atque amen[a], que Clausa dicitur).

Se la vera patria è là dove si muore, allora v. le scelte possibili per la sepoltura (il Testamentum predispone come eventuali sedi: Padova, Arquà, Venezia, Milano, Pavia, Roma, o Parma, e se altrove lo soprende la morte, vuol essere seppellito presso i frati minori; passo in cui si vede che Roma fa il suo – discreto – ingresso). E nonostante chiami regolarmente Firenze la sua patria (v. per esempio la già citata Sen. X 2, 43, in Pétrarque III, 2004, 265; per un censimento esaustivo dei passi pertinenti, v. Fenzi 2013, 377, dove si precisa però che si tratta per lo piú di «contesti ‹freddi› e auto-difensivi»).

O, come scrive Fenzi 2013, 397, «Petrarca si sente un italiano in esilio proprio perché è e si vuole cittadino di un’Italia che non c’è […]». Per quanto riguarda elezione della dimora come patria elettiva e Roma, dove sa che non potrà mai in realtà andare a stabilirsi, v. la grande e bella Fam. XV 8 del 1352 o 53 a Lelio (Angelo Tosetti), in Petrarca 1992a, 858–862 (dove scrive però, § 4, 858, che siquid est quod michi placeat in terris, in Italia est; corsivo mio). Per quanto riguarda la rovina di Roma, v. Sen. IX 1 a Urbano V per il ritorno della curia a Roma, in Pétrarque III, 2004, 115–165. Mi permetto di rinviare anche a Guérin 2006, 101–137.

Come nella canzone di Rvf 331: «Solea da la fontana di mia vita / allontanarme, et cercar terre e mari, / non moio voler, ma mia stella seguendo; / et sempre andai, tal Amor diemmi aita, / in quelli exilii quanto e’ vide amari, / di memoria et di speme il cor pascendo» (vv. 1–6).

Sulla dimensione temporale dell’esilio, v. Marcozzi 2015a.

V. Posteritati 11, in Pétrarque V, 2013, 239.

Impulsi contrarî e repentini passaggi da un’opera all’altra (l’ultima concepita intrapresa per essere poi lasciata da canto), volentieri di segno opposto, ognuna delle singole opere essendo tendenzialmente orientata verso l’arrivo o il distacco, se non la fuga: cfr. su questo tema Cachey 2016, 143–155, dove vengono riportati, 144, i bellissimi versi di Rvf 331, 22–24 («Nebbia o polvere al vento, / fuggo per piú non essere pellegrino: / e cosí vada s’è pur mio destino»). Per il motivo della fuga equivalente al ritorno, v. per esempio il primo sonetto dell’aura, Rvf 194, 6 («Per ritrovar ove ’l cor lasso appoggi, / fuggo dal mi’ natio dolce aere tosco»).

Quei fragmenta posti proprio sotto il segno dell’esilio da sé («quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono»), ma parziale, incapace di annullare completamente il passato, senza il riaffiorare del quale, voluto anziché no, precisamente non si darebbe poesia.

Cfr. Marcozzi 2011, 73–74 (la frase conclusiva della parte introduttiva del saggio suona cosí, 74: «Il tema del’esilio è destinato a trovare in Petrarca un’espressione lirica nuova, che eliminerà del tutto la dimensione civica del bando e si rivolgerà all’elegia latina [Ovidio anzitutto], piú che alla lirica volgare precedente, per le metafore e le allegorie della condizione esistenziale, non contingente, di esule e pellegrino»).

Cfr. Rem. II 67, 22, in Pétrarque 2002, 832.

V. ancora Marcozzi 2011 appena citato.

Pensiamo al riguardo, beninteso, al caso piú clamoroso, per quel che riguarda il sostrato antico, la peregrinatio di Bucolicum carmen X. Sulle metafore che reggono la teoria petrarchesca dell’imitazione, e per un approccio sintetico della problematica in questione, mi permetto di rinviare a Guérin 2016, 255–256.

Aveva già detto che l’arte è frutto tanto dell’esperienza quanto della natura: v. Fam. II 9, 2, in Petrarca 1992a, 325.

Cfr. Sen. II 3, 17–20, in Pétrarque I, 2002, 164; e la conclusione dell’excursus in 24, 166, dopo aver ricordato che viaggiare è impresa sempre rischiosa: experientia […] artem facit, usus autem artem gignit, nutrit ac perficit. Noteremo anche en passant che ars è la scrittura, cosí come ars è la navigatio: vengono messe sullo stesso piano, sulla scia delle classificazioni medievali delle arti, vittorine per esempio.

V. per un primo approccio Ariani 1999, 315; e poi, per indicazioni piú tecniche, Manni 2003, 195–223; Patota 2015, 108, evoca in introduzione, per quella che sarebbe stata la lingua madre del Petrarca, l’«ambiente familiare e la colonia dei toscani, quasi tutti esuli», stabilitisi ad Avignone (ma v. già Manni 2003, 191). Lo studio piú completo sulla lingua poetica volgare del Nostro rimane Vitale 1996. Ma, per quanto riguarda le questioni sintattiche (caratterizzate da una notevole complessità, anche nei sonetti), v. anche Tonelli 1999.

Cfr. Contini 1970, 173; v. anche, per il rapporto specifico con il latino, Manni 2003, 189 (e n. 10 sull’exquisita locutio e il Canzoniere).

V. la programmatica Fam. XV 8 già citata (Ad Lelium suum, deliberatio super electione loci ad habitandum ydonei), 15, in Petrarca 1992a, 861; e cfr. quanto si segnalava sopra n. 27 a proposito dei luoghi possibili per la sua sepoltura.

Azzardiamo un’ipotesi per quanto riguarda questo rovesciamento: siamo nel Canzoniere, per l’appunto, e non nei Triumphi, progetto dantesco (dove peraltro Guittone, là, «di non esser primo par ch’ira aggia», v. 33). E tale inversione, forse anche perché, trattandosi della visione di un corteo, il Petrarca ha bisogno di mettere in scena, per fare da pendant a Laura, le amate purché note, dotate di un’identità (di un nome proprio), nella fattispecie Beatrice e Selvaggia. Si tratta di un punto che andrebbe senz’altro approfondito. Stupisce comunque che proprio Guittone, nei Rvf, apra la mini-rassegna.

Per il quale si veda la famosa denegazione di Fam. XXI 15, in Petrarca 1992a, 1127–1134: un altro modo di significare la volontà di accomiatarsi, di prendere le distanze, di levare l’ancora e salpare, dissimulando l’æmulatio in opponendo; v. anche il § 17 di Sen. V 2 (sempre dedicata all’Innominato), in Pétrarque II, 2003, 135, sul vantaggio di occupare il secondo posto: Dante, eloquii dux vulgaris, mai nominato dunque neppure qui, ha il primato in materia. E il Petrarca continua cosí: «Spesso il secondo posto è piú sicuro e piú utile. C’è chi riceve i primi colpi dell’invidia, chi a rischio della sua fama ti traccia la via, uno di cui tu puoi guardare le orme e capire cosa c’è in esse da evitare e cosa da seguire, chi ti scuote e ti scrolla di dosso il torpore, chi ti sforzi di eguagliare, chi desideri sorpassare e ti dai da fare per non vedertelo sempre davanti: questi sono gli sproni dei nobili ingegni, grazie ai quali si sono avuti successi straordinari» (la traduzione di Monica Berté è ripresa da Petrarca 2009, 39; corsivo mio). Su Dante, v. anche le conclusioni di Afribo 2009, 77–78 («Su questi aspetti inerenti a modalità decisive nella gestione profonda dell’elemento rimico, le schede e le cifre, piú che suggerire, hanno imposto all’attenzione un asse esclusivo – Dante e Petrarca; hanno configurato una lectura Dantis petrarchesca non finalizzata al singolo prelievo, alla citazione piú o meno metabolizzata, all’aneddoto, ma all’apprensione totale […]»).

Per Guittone nei Rvf, i rinvii puntuali alle Rime dell’aretino sono 11 in Petrarca 22004a; 79 in Petrarca 22004b; 65 in Petrarca 2005. Sull’argomento Guittone, v. anche Santagata 1990, part. 128–137. Particolarmente interessanti nella prospettiva del presente studio, si rilevano alcuni prestiti guittoniani legati al tema dell’esilio (nell’estensione data qui al termine) e di alcune delle sue formulazioni piú forti: 71, 41 («lo star mi strugge, ’l fuggir non m’aita»; 209, 8 («ma com piú me n’allungo, et piú m’appresso»). Anche i passi allusivi al suicidio (cfr. infra) sono debitori dell’aretino.

Per questo peregrinare immobile, v. Rvf 209, 6: «ch’ i’ pur vo sempre e non son ancora mosso».

V. Contini 1970, 187 (e per l’«autobiografismo trascendentale», 178). Manni 2003, 197–200 e 207–208, rileva «tratti di toscanità composita», legata alla tradizione lirica, in un sistema aperto pure a voci prosastiche (già semmai introdotte in poesia tramite il filone cosiddetto comico-realistico). V. anche Vitale 1996, 522–526; Patota 2015, 130.

Cfr. Patota, 129.

Cfr. sempre la Fam. XXI 15, 12, in Petrarca 1992a, 1130: […] siquid in eo sermone a me dictum illius aut alterius cuiusquam dicto simile, sive idem forte cum aliquo sit inventum, non id furtim aut imitandi proposito, que duo semper in his maxime vulgaribus ut scopulos declinavi […] («[…] se qualche parola o espressione si trovi nei miei versi che a quelle di quel poeta o di altri sia simile o uguale, ciò avvenne non per furto o per volontà di imitare – due cose che come scogli io cercai sempre di evitare, soprattutto scrivendo in volgare […]»; corsivi miei).

E v. Marcozzi 2011, 83–84.

Cfr. G. Contini 1970, 175–176.

Cfr. Santagata 1990, 19: «Un poeta isolato, dunque; per non dire un poeta sradicato: privo cioè di un definito retroterra geografico e culturale che lo condizioni e di un passato municipale che lo àncori ad una specifica tradizione. Se l’umanista può trovare una patria alternativa nella Roma antica, il poeta volgare sviluppa un atteggiamento ecumenico, di accettazione (e insieme di presa di distanze) della tradizione intera. Ai suoi occhi, infatti, le scuole e le correnti nelle quali si articolava la poesia duecentesca […] non hanno piú senso alcuno: egli può dunque guardare dall’alto e con distacco all’intero corso della letteratura volgare, con una ricettività impensabile per altri prima di lui, anche per un Dante.»

Cfr. Vitale 1996, 529.

Cfr. Fam. XVI 14, 7, in Petrarca 1992a, 913.

Cfr. Patota 2015, 141–142. V. l’elenco stabilito da Vitale 1996, 516–521.

Rimandiamo di nuovo a Tonelli 1999.

Cfr. Afribo 2009.

Anche per trattare nell’opera poetica il tema dell’esilio, l’escursione è impressionante: dalla Bibbia all’Ovidio dei Tristia e delle Epistulæ ex Ponto, alla letteratura religiosa mediolatina, senza dimenticare i precedenti volgari di cui sopra (per un quadro completo degli ipotesti antichi, v. Marcozzi 2011).

V. gli esempî che dà Vitale 1996, 534–535; e Patota 2015, 128–130.

Rimando ai saggi citati supra, nelle note 15–19. V. anche il v. 1 della canzone 70, quella che si potrebbe dire delle successive partenze, e su cui torneremo: «Lasso me, ch’i’ non so in qual parte pieghi»: il peregrinare è anche incertezza, se non sconforto; la sua cifra linguistica, il «vario stile» illustrato anche dagli stessi incipit. Sul «vario stile» come definitorio dell’espressione lirica in quanto imitazione della varietà degli affetti, degli stati d’animo cangianti, v. Grimaldi 2014.

Cfr. Rvf 71, 8, nonché l’ulitma sestina, la doppia 332 e le sue variazioni sul tema.

Tale la funzione dei sonetti anniversario, nonché quella dei sonetti 3 (con il suo cum inversum di apertura) o 211 (nel 1327, «nel laberinto intrai, né veggio ond’esca», v. 14). Sulla particolarità sintattica del cum inversum, si veda Tonelli 1999, il primo par. del cap. «Sintassi e racconto», 123–132.

Essa stessa, la scomparsa definitiva, iscritta in un tempo differito (tra l’evento reale e l’annuncio ricevuto un mese e mezzo dopo – cfr. la nota obituaria del Virgilio ambrosiano). Sulla scansione del 6 aprile (1327, data dell’incontro, e 1348, data della morte), volta a delimitare con la messima nitidezza la porzione di tempo dell’innamoramento, v. Rico 2016, 48–66. Per il ricordo in poesia del 1348 come spartiacque, v. Rvf 336, 12–14.

V. per esempio Rvf 12; o i sonetti 315–317, del T(p): del Tempo, e anche, secondo un’ipotesi interpretativa suggestiva, del Triumphus pudicitie mai avvenuto nella storia dell’io nel Canzoniere, dove il futuro non avveratosi – né «pace» né «tranquillo porto» raggiunti mai – si transforma allora in imperfetto e condizionale; pare uno spazio virtuale, si delinea la frontiera temporale di ciò che sarebbe potuto avvenire; sonetti seguiti, ricordiamo, dal componimento frontiera – ultimo di V1 – della catastrofe – intendere in senso letterale, secondo l’etimologia – costituita dallo sradicamento del lauro (Rvf 318).

V. Marcozzi 2016, 322, sul fatto che le opere stesse del Petrarca spesso e volentieri si aprono e chiudono all’insegna di considerazioni sul tempo.

V. Manni 2003, 213; Vitale 1996, 358 («Fitto e già ordinato in impieghi precisi, come ormai richiedeva il sistema, l’uso del gerundio nei Rvf risponde nella sua frequenza alla tendenza particolarmente poetica all’assorbimento dell’azione in strutture nominali che agevolavano la fluidità dei dettati.»)

Condenso qui le osservazioni di Stroppa 2014, 229 (le quali poggiano sull’analisi condotta da Fenzi sui giochi temporali della seconda boschereccia : Fenzi 2003, 65–99).

Per le implicazioni dal punto di vista della storia della lingua letteraria, v. Coletti 22000, 57–58.

V. Contini 1970, 177. Esemplare Rvf 336: «Tornami a mente, anzi v’è dentro, quella [N.B. l’enjambement] / ch’indi per Lethe esser non pò sbandita, / qual io la vidi in su l’età fiorita, / tutta accesa de’ raggi di sua stella. // Sí nel mio primo occorso honesta e bella / veggiola [N.B. l’enjambement], in sé raccolta, et sí romita, / ch’i’ grido: – Ell’è ben dessa; anchor è in vita – / e ’n don le cheggio sua dolce favella.»: o il presente dell’enunciazione come potenza illusoria della memoria, immobilità e immutabilità dell’immagine mentale. Per uno splendido esempio di «risovenir», v. Rvf 196 (secondo sonetto dell’aura): qualcosa come le «gouttes de lumière cimentées» della Conclusione del proustiano Contre Sainte-Beuve.

Sul distacco dal presente, significato da toponimi e nomi di persona («completamente svuotati della loro