Umschlag

Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Titolo originale: Germania
© 2013 Knaur Taschenbuch. Ein Unternehmen der Droemerschen Verlagsanstalt Th. Knaur Nachf. GmbH & Co. KG, München
© 2016 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati.
Italian edition by arrangement with Il Caduceo Agenzia Letteraria
Impaginazione: César Satz & Grafik GmbH, Colonia
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-96041-158-1
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
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HARALD GILBERS

BERLINO 1944

Caccia all’assassino tra le macerie

Traduzione di Giovanni Giri

A Peter Dahmen, che sapeva già tutto in anticipo.

Elenco dei personaggi

Bauer e Lüttke – agenti del controspionaggio nazista, anche detti “Antonio e Virgoletta”

Signorina Behringer – segretaria della Höcker & Figli, ex collega di Inge Friedrichsen

Billhardt – ex collega di Richard Oppenheimer

Julie Dufour – corrispondente in lingue estere del Gruppenleiter Reithermann

Ede – piccolo malfattore

Friederike (alias Edith Zöllner, alias Verena Opitz) – prostituta al Salon Kitty

Inge Friedrichsen – impiegata della ditta Höcker & Figli

Christina Gerdeler – giovane donna, assidua frequentatrice dell’Hotel Adlon e dei suoi clienti

Joseph Goebbels – ministro della Propaganda del Reich

Graeter Hauptsturmführer delle SS

Rainer Herrmann Gruppenleiter delle SS

Traudel Herrmann – moglie di Rainer Herrmann

Gerd Höcker – titolare della ditta di alcolici Höcker & Figli

Hoffmann – autista personale di Oppenheimer

Dottor Klein – medico ebreo, risiede nella Judenhaus

Marga Kriegler – amica di Traudel Herrmann

Johannes Lutzow – veterano della Prima guerra mondiale

Richard Oppenheimer – ex commissario di polizia criminale, ebreo

Lisa Oppenheimer – moglie di Richard

Günther Reithermann Gruppenführer delle SS

Coniugi Schlesinger – ebrei residenti nella Judenhaus

Kitty Schmidt – titolare della casa di appuntamenti Salon Kitty (alias Pensione Schmidt)

Schröder Oberführer delle SS

Albert Speer – l’architetto prediletto da Hitler

Hildegard von Strachwitz, detta Hilde – medico, amica di Richard Oppenheimer

Vogler Hauptsturmführer delle SS

Karl Ziegler, detto Kalle – meccanico e collaboratore salutario della Höcker & Figli

 

 

 

Gradi della gerarchia militare nazionalsocialista citati nel romanzo (in ordine discendente)

 

 

Ufficiali generali

Reichsführer – comandante in capo delle SS

Oberstgruppenführer – generale d’armata

Gruppenführer – generale di divisione

Oberführer – colonnello brigadiere

 

Ufficiali superiori

Obersturmbannführer – tenente colonnello

 

Ufficiali inferiori

Hauptsturmführer – capitano

Obersturmführer – tenente

 

Sottufficiali

Hauptscharführer – maresciallo maggiore

PROLOGO

Inizio estate del 1939

La luce segnava le dieci del mattino. Nella capitale del Reich le strade, infossate tra gli alti palazzi, rilucevano di un biancore accecante. Nulla però si muoveva, e ogni cosa pareva come pietrificata, raggelata in un perpetuo inverno.

Ci sarebbe voluto del tempo prima che il caos quotidiano della città di Berlino arrivasse fin lì. In quel momento le strade, nel loro abbandono, irradiavano ancora simmetria e ordine, nessuna vettura parcheggiata sul marciapiede, nessuno a passeggiare lungo i viali. Un ordine turbato solo dalle bollicine di colla rappresa che, nonostante la pignoleria dell’architetto, erano cadute qua e là, gocciolando dalle travature degli edifici.

L’ampio asse stradale correva dritto verso un’imponente cupola, che sarebbe stata visibile, all’orizzonte, già a parecchi chilometri di distanza. Chissà quando, nel futuro. Quel che ancora dominava l’orizzonte nel suo sfarzoso candore un giorno avrebbe illuminato l’intera città nella sua verde veste di rame patinato. La Große Volkshalle, la Sala del Popolo, in grado di ospitare centottantamila persone, sarebbe stato un luogo per celebrare trionfi mai visti.

Più su, sopra quei tetti, un sussurro. “Eccellente, Speer.”

Quella voce non aveva il suono gracchiante e lontano, con la erre arrotata, che ogni cittadino del Reich tedesco conosceva dalla radio, o dal cinegiornale, e nemmeno ricordava l’abbaiare rauco che il dittatore aveva in repertorio quando si trattava di incitare le folle. Davanti alla riproduzione, lunga trenta metri, della via più sontuosa della città, quella voce suonava riservata, nel suo baritono naturale, come assorta nei pensieri, quasi mite. Sporgendo all’indietro il fondoschiena, posa che mai avrebbe assunto, il dittatore si piegò per ammirare la prospettiva da una posizione più vicina al pavimento.

Nulla da dire, con Albert Speer aveva trovato un architetto che a volte riusciva a superare, per grandiosità e dimensioni, persino le audaci idee del suo superiore. Il Viale delle Parate, lungo più di cinque chilometri, l’Arco di Trionfo con i suoi colonnati ombrosi, quasi cinquanta volte più grande dell’Arc de Triomphe di Parigi, la Sala del Popolo, progettata per essere l’opera architettonica più grande del mondo, la cui cupola avrebbe disegnato, all’interno, una volta a duecentoventi metri di altezza… Il progetto dell’intera città era una sfida alle altre metropoli del mondo, lo sfogo, fattosi pietra, di un orgoglio nazionale ferito nel profondo, che ora voleva tornare a ostentare in ogni modo la propria superiorità.

Il centro della capitale del Reich si sarebbe trasformato in un enorme palcoscenico per marce e parate. Di rado il dittatore si chiedeva se davvero qualcuno potesse viverci, in quella città. Gli isolati circostanti non erano che rettangoli tutti uguali, suddivisibili all’occorrenza, in base alle esigenze della viabilità stradale.

Per la vecchia Berlino con le sue contraddizioni, per la metropoli sbarazzina a volte provincialissima che per lungo tempo era stata, in quella grandiosa visione non c’era posto. Il dittatore rifletteva da parecchio tempo se fosse il caso di chiarire la questione fin da subito. “Berlino”, per i suoi gusti, era un nome troppo squallido, bisognava trovarne uno nuovo, grandioso, monumentale, degno di una Welthauptstadt, di una “Capitale Mondiale”. Magari un nome come “Germania”.

Lo sguardo del dittatore veniva attirato in continuazione, come per magia, dalla cupola della Sala del Popolo. Alla fine rivolse un’occhiata perplessa alla struttura sulla sommità, dove l’aquila del Reich troneggiava sulla croce uncinata. Allora scosse la testa, come sorpreso da una consapevolezza improvvisa. “Quello è da cambiare, Speer. È meglio che qui l’aquila non stia più sopra la croce uncinata. Sulla cima di questo capolavoro architettonico, l’aquila dovrà stare sopra il globo terrestre.”

Quando Hitler se ne andò, il primo architetto del Reich, Speer, giunto sull’arco della porta, si voltò ancora una volta. A illuminare il modello della Sala delle Esposizioni dell’Accademia c’era soltanto un sistema di lampade che simulava realisticamente la luce del giorno. Il plastico della città giaceva in quella sala buia, una macchia di luce in un nero infinito, una promessa per il futuro. Però c’era ancora molto da fare.

Speer spense le lampade.

Su Germania scese la notte.

1

Domenica 7 maggio 1944

Sono venuti a prendermi, fu la prima cosa che gli balenò in testa. Quando si rassegnò a quel pensiero ed ebbe chiare in mente le conseguenze, Oppenheimer d’istinto si tirò la coperta addosso. Troppo tardi. Il visitatore indesiderato si trovava già nella sua stanza. A causa dell’obbligo di oscuramento, nel suo piccolo alloggio non entrava un solo raggio di luce. L’intruso non era altro che un’ombra in attesa, proprio di fronte al letto.

Assonnato, Oppenheimer aveva fatto per abbracciare la moglie, ma nel corpo di Lisa aveva sentito una grande tensione. Si era tirata un po’ su e non si azzardava nemmeno a respirare. Fuori, però, era tutto tranquillo. Non una sirena strepitante nella notte, né un bombardiere rombante in cielo, né l’artiglieria crepitante in lontananza. Dunque non poteva essere stato l’allarme aereo a spaventarla tanto. Oppenheimer, in un primo momento, si era girato verso di lei, finché non aveva visto lo sconosciuto, in piedi, vicinissimo.

Quella figura indistinta si muoveva piano con il respiro regolare. Nel buio guizzò una scintilla che salì verso l’alto, poi si trasformò in un puntino fiammeggiante, mentre l’intruso aspirava. Dal nulla tenebroso della sua stanza, Oppenheimer si sentì soffiare addosso odore di tabacco.

Poteva essere soltanto un agente della Gestapo. A causa dei suoi trascorsi con la malavita berlinese, Oppenheimer sapeva che nessun rapinatore avrebbe avuto l’idea malsana di andare a farsi un giretto in una Judenhaus, una casa di residenza forzata per ebrei, per poi mettersi ad aspettare tranquillo, con la sigaretta in bocca, che le sue vittime si svegliassero e si accorgessero di lui. “Oppenheimer, i suoi polli, li conosce.” Negli anni passati in polizia, quella frase l’aveva sentita tante volte dai colleghi. Finire nel mirino della Gestapo per due schifosi spiccioli era un rischio troppo grande per un ladro. Le visite ai giudei che abitavano in quelle case, infatti, per gli uomini della Gestapo erano un privilegio personale ed esclusivo. Benché negli ultimi mesi non ci fossero più state perquisizioni, Oppenheimer se le ricordava ancora benissimo. Ti piombavano in casa a frotte, quelli della Gestapo. In una casa per ebrei, per loro era normale prenderti a pugni in faccia, a sputi e a insulti. Quell’uomo, però, era venuto da solo, senza fare rumore. Brutto segno, decisamente. Quando quelli della Gestapo provocavano, almeno sapevi come regolarti. Ma quando stavano zitti, poteva succedere di tutto.

Per un istante che sembrava non voler mai finire, restarono tutti dov’erano, Oppenheimer immobile a letto, Lisa accanto a lui e lo sconosciuto appoggiato allo stipite della porta. Poi ecco la voce dell’uomo. “Oppenheimer, lo so che è sveglio. Sicherheitsdienst. Potrebbe, solertemente, vestirsi e seguirmi?”

Certo, era una domanda, ma il tono era inequivocabile. Non avrebbe tollerato un rifiuto.

Oppenheimer non si azzardò nemmeno ad accendere l’abat-jour. Dentro era tutto un tremore, ma si alzò e allungò la mano per prendere i vestiti dalla spalliera della sedia. Non gli venne da chiedersi cosa potesse volere un uomo del Sicherheitsdienst, il famigerato SD, il servizio segreto delle SS. Meccanicamente percorse tutta la cucina, che condivideva con gli altri abitanti della Judenhaus. Ogni volta Oppenheimer rimaneva sorpreso dalla sollecitudine con cui obbediva agli ordini quando era spaventato, quando sapeva che il suo destino era nelle mani di qualcun altro. Per un attimo pensò a Lisa, avrebbe dovuto lasciarla là, indifesa. Ma essendo un’ariana certificata, seppure lo avessero ucciso, lei se la sarebbe cavata. Dopotutto sarebbe tornata libera, non più emarginata dalla comunità per aver sposato un ebreo. Nonostante il terrore, quel pensiero lo confortava un po’.

Per le scale la luce era accesa, e Oppenheimer poté vedere per la prima volta lo sconosciuto. Il suo aspetto non lasciava spazio alle illusioni. L’uomo portava gli occhiali ed era piuttosto basso. La forma innaturale della tasca del cappotto in cui teneva la mano, però, indicava che era armato. Oppenheimer si meravigliò che nessun altro, nella Judenhaus, fosse in piedi. Nemmeno quegli impiccioni degli Schlesinger, che si aggiravano di soppiatto per i corridoi. A quanto pareva, avevano preso di mira proprio lui.

L’uomo del Sicherheitsdienst vide la valigia che Oppenheimer portava con sé e lo guardò perplesso. Era stato un riflesso condizionato. Uscendo, aveva preso il bagaglio che teneva pronto per il rifugio antiaereo. Dentro c’erano le cose più importanti da portare nel rifugio in caso di bombardamento. A Berlino, di quelle valigie, ce n’erano tante.

“Non le servirà,” disse l’agente del Sicherheitsdienst con un cenno della mano.

Oppenheimer fece dietrofront e posò la valigia nella cucina buia.

Davanti alla porta li attendevano due uomini delle SS, armati. Non appena l’agente dell’SD ebbe spinto Oppenheimer sul marciapiede, si mossero anche loro. Le nuvole oscuravano il cielo notturno. La luna, al di là di esse, era ridotta a un bagliore diffuso che si rifrangeva sugli elmetti d’acciaio delle due SS. Oppenheimer fissò angosciato le loro schiene grigie, che si muovevano insieme, a tempo, e udì lo sferragliare metallico delle carabine. Cosa poteva fare? Tentare di scappare? Nello stesso istante in cui concepì il pensiero, lo scacciò. Finché l’agente del Sicherheitsdienst gli stava alle costole, non avrebbe potuto fare nulla.

Arrivarono a un’automobile, parcheggiata come tante nella traversa successiva. Lo sportello posteriore si aprì e Oppenheimer fu avvolto dall’oscurità.

A Berlino, gli ultimi giorni erano stati insolitamente tranquilli. Anche quella notte non c’erano stati allarmi aerei. Però lo sapevano tutti che quel silenzio era ingannatore. Prima o poi gli aerei sarebbero tornati. E una miriade di bombe avrebbe distrutto degli edifici, trasformando la capitale del Reich in un luogo fatto di cenere e macerie. Gli spazi vuoti che si aprivano negli isolati erano i segni degli ultimi attacchi. I berlinesi si erano abituati da tempo a quelle continue trasformazioni. La vita della città era sempre stata molto frenetica, ma nonostante tutto la febbrile corsa a costruire, che aveva imperversato dopo la presa del potere da parte di Hitler, aveva raggiunto livelli straordinari. Ovunque, cicatrici. I governanti nazionalsocialisti avevano fatto spianare gli angoli più belli del centro, spostato fontane e monumenti, trasferendo addirittura, in un’impresa titanica, la Colonna della Vittoria dal Reichstag al Tiergarten, al centro del Großer Stern, la Grande Stella.

Guardando dal finestrino durante il viaggio in auto, all’improvviso Oppenheimer ebbe un sussulto. Per un breve attimo aveva creduto di incrociare con lo sguardo un volto terrorizzato. A guardar meglio, però, si rese conto che a ingannarlo era stato il chiarore della luna. Quelle guance infossate e quegli occhi scavati erano i suoi. Quando si accorse che in realtà si era spaventato davanti all’immagine riflessa del suo stesso viso, si sentì un cretino.

Fuori vide il piedistallo della Colonna della Vittoria. L’agente delle SS al volante svoltò a sinistra, imboccando l’asse est-ovest, verso il centro. Poco dopo passarono attraverso la Porta di Brandeburgo. Oppenheimer non aveva nessun problema a orientarsi, nonostante l’oscurità. Di quella zona conosceva anche l’angolino più remoto e non aveva bisogno di alzare lo sguardo per sapere che, sopra le loro teste, stavano sfilando ali di pietra che si spalancavano nella notte.

Unter den Linden, “Sotto i tigli”: si chiamava così il viale che percorrevano, anche se già da qualche anno gli architetti di Hitler avevano tolto qualunque significato a quella denominazione. In pratica, avevano fatto abbattere gli antichi alberi per far posto a una schiera interminabile di colonne di marmo, sulle cui sommità ora troneggiava una formazione di aquile del Reich. I giovani tigli, piantati in seguito, sembravano nani usciti da una brutta barzelletta.

Proprio là erano risuonati cori esultanti quando le zone controllate dalla Società delle Nazioni erano state riannesse al Reich, e un’euforia ancora più grande aveva accolto l’annuncio dei primi successi sul fronte e del fulmineo dilagare della Wehrmacht, vittoria dopo vittoria, in tutta Europa.

Quel consenso gridato a gran voce, però, si era affievolito sempre più quando erano cominciate a cadere le bombe.

E poi Stalingrado.

Quella disfatta militare nell’immensa steppa russa aveva tolto sapore al trionfo, minando alle fondamenta la fiducia del popolo nella collaudatissima macchina da guerra tedesca.

Nelle giornate di sole, le colonne di marmo bianco di Hitler illuminavano ancora il centro della città, ma di notte si trasformavano in una selva inquietante e tenebrosa in mezzo a un deserto di rovine, quello su cui ora la loro automobile si faceva strada a fatica.

Il conducente evitò un cratere rattoppato alla meglio, in mezzo alla carreggiata. Spaventate dalla luce dei fanali, ombre grigie dagli occhi scintillanti corsero via, per mettersi al riparo. Ratti. Ce n’era un’infinità, tra le macerie. Nonostante le devastazioni, riconquistavano il loro antico territorio, centimetro dopo centimetro.

L’agente del Sicherheitsdienst aprì lo sportello. Oppenheimer intravide vagamente, là vicino, un altro veicolo parcheggiato. E ancora più in là, nel buio, alcuni uomini con le torce elettriche.

“Scenda,” ordinò l’agente dell’SD.

Esitante, Oppenheimer si alzò a fatica dal sedile. Il viaggio era durato più del previsto. A un certo punto, nell’oscurità, aveva perso l’orientamento. Il panico che si era impadronito di lui all’inizio aveva man mano lasciato il posto a un grande stupore. Attraversata la Sprea, riconoscendo gli imponenti capannoni della AEG, Oppenheimer aveva capito che si trovavano nel quartiere di Oberschöneweide. Tutta Berlino conosceva i maestosi edifici industriali che correvano lungo la riva nord della Sprea, però anche spremendo al massimo l’immaginazione non riusciva davvero a spiegarsi cosa mai potesse spingere il Sicherheitsdienst a scarrozzarlo fin là nel cuore della notte.

L’accompagnatore di Oppenheimer indicò il cono di luce della torcia. Intanto aveva estratto l’arma dalla tasca del cappotto e l’aveva puntata verso l’ebreo. Controvoglia, Oppenheimer si incamminò. L’agente dell’SD lo condusse su un prato al cui centro, sopra alcuni gradoni di granito, era posato un blocco di pietra alto tre o quattro metri. Nella sua incompiutezza, quel masso non sembrava avere una funzione evidente. Erano forse i poveri resti di un monumento commemorativo. A Berlino ce n’erano moltissimi. Erano quasi tutti di costruzione recente e ricordavano gli orrori dell’ultima guerra. Ora che i conflitti mondiali si potevano numerare, quella la chiamavano la “Prima guerra mondiale”, anche se la gente le aveva affibbiato un nomignolo breve e incisivo: Anno Scheisse, gli “anni di merda”. In epoche eroiche come quella in cui vivevano, i metalli scarseggiavano, e la non indifferente riserva delle componenti metallici dei monumenti era stata subito fusa appena iniziato il nuovo conflitto, ancora più grande. Laddove un tempo si ergeva una scultura, non restava niente.

Quella mattina, però, c’era qualcosa di nuovo, qualcosa che non aveva nulla a che fare con un monumento. Appena dietro il piedistallo era stato steso alla meglio, sul terreno, un grande panno. Oppenheimer, dalla sagoma, capì subito cosa c’era sotto: davanti a loro c’era un cadavere.

Alla luce delle torce vide meglio anche i visi dei due uomini. Entrambi indossavano l’uniforme grigia delle SS. Dietro di loro s’innalzava un grande edificio, doveva essere una chiesa.

Nell’aria fresca del mattino, frammenti di conversazioni.

“Bel casino,” bisbigliò uno dei due fissando con aria scontrosa il cadavere coperto ai suoi piedi. “Pensa davvero che sia una mossa intelligente portare qui un ebreo?”

“Ho i miei motivi, Graeter,” disse il secondo uomo accendendosi una sigaretta.

“Dica quel che le pare, Vogler, io credo sia un errore.” Vedendo Oppenheimer avvicinarsi insieme al suo accompagnatore, ammutolì imbarazzato.

L’altro si rivolse subito al nuovo arrivato. “Ah, eccola, Oppenheimer.”

L’agente delle SS di nome Vogler puntò la torcia sui due. Il cono di luce si soffermò per un istante sulla stella di David che portava Oppenheimer. Una smorfia di perplessità aleggiò per un istante sul viso di Vogler, ma subito sparì dietro l’aplomb forzato che contraddistingueva l’élite hitleriana.

“Sono l’Hauptsturmführer Vogler. Qui, due ore fa, è stato ritrovato questo cadavere.”

Vogler si avvicinò. L’altro agente in uniforme, tale Graeter, aveva uno sguardo decisamente inespressivo ma fece un sospiro eloquente prima che il telone venisse rimosso.

Quando Oppenheimer vide che si trattava di una donna, avvertì di nuovo la fitta allo stomaco che ben conosceva. Certo, nei suoi anni in polizia aveva già avuto a che fare con dei cadaveri, ma non era mai diventato insensibile al punto che la vista di una donna assassinata potesse lasciarlo indifferente. Allo stesso tempo, dentro di sé sentì anche l’impulso del commissario della squadra omicidi, il cervello che si metteva in moto, come aveva fatto fino a parecchio tempo prima. Ordinò agli occhi, ancora tentennanti, di osservare meglio la scena.

“Ci racconti cosa vede,” ordinò l’Hauptsturmführer Vogler.

Quel corpo era devastato, non c’erano dubbi. Notando i paletti d’acciaio fissati a terra vicino al corpo, capì che gli addetti al rilevamento delle impronte erano arrivati già da tempo con la loro macchina omicidi, per svolgere i rilievi tecnici necessari alle indagini. D’istinto, Oppenheimer vagò con lo sguardo in cerca di ulteriori indizi sfuggiti agli specialisti, ma poi ebbe un attimo di indugio.

Si domandò cosa dovesse cercare in quel luogo. La sua sospensione dal servizio risaliva a molto tempo prima. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, come tutti gli altri ebrei, era stato rimosso dalle funzioni pubbliche. Alla sezione omicidi del commissariato, ufficialmente, non aveva più potuto mettere piede, eppure in quel momento aveva davanti una donna morta.

Si voltò verso gli altri, perplesso. Era nel panico. Volevano forse accusarlo di omicidio? Mai aveva pensato che il Sicherheitsdienst avesse tanta inventiva. Una semplice fossa e un proiettile in testa, del resto, sarebbero bastati a farlo sparire per sempre. Allora perché tutta quella fatica?

“Non ci dà nessun indizio?” domandò Vogler. “Mi sta deludendo. Avevo riposto in lei qualche speranza,” disse porgendogli la torcia.

Esitante, Oppenheimer la prese. Allora erano indizi, ciò che volevano da lui. Non poteva far altro che stare al gioco.

Lentamente, si voltò verso il cadavere della donna. Poi attaccò con voce rauca: “Credo sia sui venticinque anni. Segni di strangolamento sul collo. Forse è anche la causa di morte.”

Era quello che volevano sentire? Le espressioni cupe dei due indicavano indifferenza. Solo Vogler sembrava sforzarsi di seguire le sue considerazioni. Oppenheimer fece per ispezionare il corpo, ma si fermò rivolgendosi perplesso all’Hauptsturmführer.

“Posso toccarla?”

“Faccia quel che ritiene opportuno,” rispose lui.

Con attenzione, Oppenheimer le mosse la mascella. Si apriva a fatica. La muscolatura della mano, invece, era relativamente rilassata.

“La rigidità cadaverica non è ancora molto marcata. A livello degli arti inferiori è solo parziale. L’omicidio, quindi, è avvenuto da poco tempo. Direi da circa sei ore. Ma potrei sbagliarmi: con il freddo il rigor mortis si instaura più tardi. I medici sapranno determinarlo con maggiore precisione. I polsi presentano ferite da sfregamento. Probabilmente è stata legata.”

Oppenheimer si alzò e osservò di nuovo il cadavere da capo a piedi. L’addome della giovane era rivolto proprio verso il blocco di pietra del monumento, le gambe divaricate come in un atto sessuale. La posizione del corpo sembrava scelta con grandissima cura. L’assassino aveva impiegato parecchio tempo per sistemarlo in quella posa oscena, davanti al cippo commemorativo.

Nella parte interna della gamba, Oppenheimer notò all’improvviso una macchiolina di sangue rappreso. S’inginocchiò accanto al cadavere per capire da dove venisse quel sangue. L’agente dell’SD che l’aveva portato fin lì si voltò, spaventato. Forse non voleva vedere un ebreo che guardava sotto le gonne di una donna assassinata? Oppenheimer sapeva che i morti non badano più alle convenienze e sollevò l’orlo.

Quel che vide lo fece sobbalzare. E capì la reazione dell’agente del Sicherheitsdienst.

“C’è qualcosa?”

Alla domanda di Vogler, Oppenheimer si limitò a scuotere la testa, nonostante la stretta alle viscere. Inspirò profondamente e reagì come faceva in situazioni del genere. Scacciò la sensazione di disgusto e si sforzò di procedere in maniera metodica.

La donna non indossava biancheria intima. Il suo ventre era un’unica, grande ferita.

“Qua c’è una lesione importante. Gli organi genitali sono stati mutilati, forse addirittura interamente asportati.”

Quando Oppenheimer ritenne di aver visto tutto, si alzò e cominciò a esaminare la zona circostante. Da qualche parte, sopra la sua testa, stormivano le foglie. Mentre le case tutto attorno cominciavano a delinearsi indistintamente, il cadavere restava avvolto dalle tenebre. La mente di Oppenheimer mise ordine in quei dati, mentre attorno a lui, a poco a poco, la vita si risvegliava.

Ignari del fatto che là vicino era stato commesso un crimine orrendo, gli abitanti della zona erano beatamente sprofondati in un sonno che, anche quella notte, nessun allarme aereo aveva disturbato. Altri, come al loro solito, erano già in piedi, pur non dovendo andare al lavoro, e si trascinavano assonnati verso il bagno o preparavano la colazione. La vita continuava sempre uguale, come in una domenica qualsiasi. Pur non riuscendo a vedere nulla di tutto ciò, Oppenheimer avvertiva con chiarezza il risvegliarsi degli abitanti. Non lontano passava scoppiettando il primo veicolo, e il suo rumore echeggiava tra le case. Di lì a poco avrebbero visto i primi fedeli dirigersi verso la funzione del mattino. E per arrivare alla chiesa avrebbero dovuto passare proprio vicino a quello spiazzo.

“E qual è la sua conclusione?”

La voce di Vogler strappò Oppenheimer alle sue riflessioni. Nel frattempo erano arrivati altri due uomini con una bara di zinco, per rimuovere il corpo. Gli altri sfregavano agitati i piedi sul terreno. Solo Vogler se ne stava là, immobile, a fissare Oppenheimer. L’ex commissario si schiarì la gola. La lunga esperienza lo aiutò a non fare la figura del cretino e a sintetizzare al massimo le sue osservazioni.

“A prima vista, direi che non è stata uccisa qui. Non c’è sangue. Sull’orlo inferiore della gonna ci sono solo poche macchie, per il resto ne vedo soltanto intorno alla ferita, e la cosa mi pare curiosa. Niente sangue sul terreno, niente macchie di sangue nella zona circostante; no, è stata uccisa in un altro posto e poi portata qua. Non ho mai visto un cadavere abbandonato così. Ritengo improbabile che si tratti di una casualità. Siamo in un luogo pubblico. Il rischio di essere visti è grande. No, signori, l’uomo che ha fatto tutto ciò aveva un piano prestabilito. E lo ha eseguito fin nei minimi dettagli. Ci è proprio riuscito e nessuno l’ha notato. Tutti questi elementi consentono una sola conclusione: chiunque abbia agito qui, è dotato di una freddezza inimmaginabile. Solo un soggetto con tendenze bestiali è in grado di mutilare così un cadavere e poi metterlo anche in mostra. Non voglio illudervi. Non sarà facile acciuffare il colpevole.”

La sirena lanciava il suo guaito. Equivaleva al massimo livello di allarme. Oppenheimer s’incamminò in automatico, ma non era preoccupato per i bombardieri nemici in volo sulla città.

Dopo aver fornito le sue valutazioni sull’omicidio a Oberschöneweide, era stato di nuovo trasportato in auto fino in centro.

Nessuno aveva nemmeno provato a spiegargli la situazione in cui si era ritrovato. Non appena avevano udito il segnale di preallarme, l’uomo dell’SD l’aveva scaricato all’altezza del ponte di Hansabrücke ed era sfrecciato via. Poteva andare molto peggio: la Judenhaus si trovava infatti a poche centinaia di metri.

Oppenheimer sarebbe dovuto essere stanchissimo, dopo la lunga notte, invece la sua mente girava a mille. Quelle sensazioni non volevano andarsene.

Mentre si avvicinava alla sua abitazione, tentò di capire chi fossero quelli che aveva visto sul luogo di ritrovamento del cadavere. I due uomini delle SS portavano uniformi identiche, si poteva quindi pensare che fossero entrambi Hauptsturmführer. Non capiva però cosa c’entrassero le SS con un caso di omicidio.

A differenza dei due Hauptsturmführer, l’uomo del Sicherheitsdienst che l’aveva accompagnato sul posto aveva molti più motivi per trovarsi sul luogo del delitto. Quando avvenivano reati gravi, gli ufficiali dell’SD comparivano subito. In origine, l’organizzazione non aveva avuto niente a che vedere con la polizia criminale. All’inizio il Sicherheitsdienst des Reichsführers-SS altro non era che un servizio informativo interno al Partito nazionalsocialista, ma dopo l’ascesa al potere di Hitler, i confini tra lo Stato tedesco e gli apparati nazisti si erano fatti sempre più sfumati. Alle organizzazioni del Partito nazista erano state assegnate sempre più funzioni, e non era passato molto tempo prima che Sicherheitsdienst, Gestapo e Kripo, la polizia criminale, confluissero nel nuovo Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich. Gli agenti della polizia criminale avevano perso qualunque potere ed erano stati ridotti a lacchè, con il permesso di agire in autonomia solo per le più banali infrazioni stradali o amministrative. I reati gravi dovevano essere esaminati dai membri del Partito. A causa delle eterne contese tra le organizzazioni di partito in materia di competenze, ormai era difficile prevedere se un caso sarebbe finito in mano al Sicherheitsdienst o alla Gestapo.

Oppenheimer era talmente assorto nei pensieri che non si accorse nemmeno del silenzio spettrale che era calato, pesante come il piombo. Quella mattina aveva subìto una trasformazione radicale: dopo tanto tempo provava di nuovo la sensazione di esercitare la propria autorità. Per qualche ora era stato di nuovo il commissario Oppenheimer, e non il funzionario da rimuovere dal suo incarico pubblico a causa delle sue origini ebraiche. Di colpo non era più una vittima del dispotismo hitleriano, ma un difensore della giustizia. Tanto che per strada non camminò come al solito, con la testa e gli occhi bassi, ma entrò nella Judenhaus come se abitare lì fosse la cosa più naturale del mondo.

Essendo ancora in corso l’allarme aereo, Oppenheimer scese le scale. La cantina era stata trasformata alla meglio in un rifugio. Non avevano altra scelta: nei grandi rifugi antiaereo, quelli con muri di cemento spessi metri e metri, i giudei non potevano entrare. Con le travi in legno ad altezza d’uomo, incastrate successivamente a rinforzo, Oppenheimer pensava che quel luogo assomigliasse alla galleria di una miniera. Nonostante le misure di sicurezza, il misero soffitto in legno avrebbe opposto ben poca resistenza a una bomba. A dirla tutta, sarebbe stato più sensato cercare rifugio direttamente all’aperto, dove il rischio di finire sepolti vivi sotto le macerie era minore. In quanto potenziali nemici dello Stato, agli abitanti della Judenhaus non erano state concesse nemmeno le maschere antigas, non potevano possedere apparecchi radiofonici, e la cantina non era dotata di un apparecchio per la filodiffusione che permettesse agli occupanti di capire cosa accadeva all’esterno.

Quando Oppenheimer entrò nella cantina-rifugio, gli altri abitanti della Judenhaus erano già seduti l’uno accanto all’altro: i coniugi Bergmann, gli Schlesinger e il dottor Klein, che come al solito custodiva la farmacia e aveva a portata di mano, in caso di emergenza, la valigetta da medico. Il vecchio Schlesinger gli fece l’occhiolino da sotto l’elmetto d’acciaio, ricordo della Prima guerra mondiale.

“Sua moglie è in fabbrica, oggi?” domandò il vecchio. “Non l’abbiamo ancora vista.”

Oppenheimer rimase sconcertato. “Strano. Non mi ha detto niente.”

“Schlesinger, gliel’avevo detto di controllare,” borbottò il dottor Klein dal suo angolino. Si appoggiò a fatica sulle mani, per sollevare il suo quintale di peso.

“Resti seduto, dottore,” disse Oppenheimer. “Ci penso io.”

Era arrivato a metà dell’ultima rampa di scale prima del suo appartamento, quando raggelò. Gas!

Lassù c’era qualcosa che non andava. Oppenheimer salì gli ultimi gradini di corsa e spalancò la porta della cucina.

Il puzzo di gas lo travolse. Stordito, indietreggiò di un passo. Inspiegabilmente, la finestra della stanza era chiusa. Lisa la spalancava sempre durante gli attacchi aerei, in modo che il vetro non andasse in frantumi per l’onda d’urto di un’eventuale esplosione.

Oppenheimer inspirò profondamente e corse all’interno. I suoi sforzi per aprire la finestra non diedero risultati. Era troppo agitato. Allora afferrò il secchio pieno di sabbia che era sul pavimento e ruppe il vetro.

Boccheggiò davanti al vetro rotto per prendere fiato. Aveva appena finito di riempire di nuovo i polmoni quando vide la valvola del fornello aperta. Sopra c’era il pentolone dell’acqua; qualcuno doveva essersi dimenticato di accendere il fuoco.

Con due lunghe falcate si avvicinò ai fornelli e chiuse il gas. Aveva appena aperto la porta della loro stanza, quando vide Lisa. Era sul letto, vestita e svenuta. Oppenheimer si precipitò alla finestra della camera e la spalancò di slancio.

Sentì l’aria fresca sul viso. Nello stesso istante udì il rombo di potenti motori sopra il tetto, oltre al fischio stridulo delle bombe che cadevano.

Gli sembrò di trovarsi sotto un treno. Fuori c’era un inferno assordante. Un’esplosione dopo l’altra. In cielo, Oppenheimer vide a occhio nudo le sagome degli aerei sotto le nuvole grigie. Volando così bassi, l’artiglieria antiaerea non avrebbe potuto fare nulla. Però ora non aveva tempo per pensarci. Afferrò la moglie da sotto le ascelle e la tirò verso la finestra. Fuori di sé dallo spavento, cominciò a darle leggeri schiaffetti sulle guance.

All’improvviso Lisa aprì gli occhi e prese aria con un gemito. Oppenheimer la strinse forte, sentì il corpo di lei irrigidirsi mentre tossiva per buttare fuori il gas inalato.

2

Domenica 7 maggio 1944

Negli ultimi mesi la Judenhaus si era svuotata. Ciò aumentava la probabilità che gli ultimi rimasti dovessero ben presto trasferirsi in nuove abitazioni, ancora più anguste. I coinquilini di Oppenheimer erano spariti uno dopo l’altro: il decoratore di infissi Schwartz, anche lui come Oppenheimer, sposato con un’ariana, sempre impegnato con i suoi disegni; i coniugi Lewinsky con i loro quattro figli; il dottor Kornblum, distinto avvocato, che si definiva un liberale e non concepiva né l’ebraismo riformato né quello ortodosso, costretto ad abitare vicino ai religiosissimi Jacobi, moglie e marito chassidici, che lo tormentavano a morte con le loro preghiere. Era sparito anche il vetraio Franck, che simpatizzava per il movimento proletario e che da sempre aveva avuto grandi pregiudizi nei confronti degli ebrei orientali.

Dopo che la Gestapo li aveva evacuati, avevano lasciato un vuoto nell’edificio, oltre a stanze chiuse a chiave in cui non si poteva più entrare.

Naturalmente la parola “evacuazione”, che le autorità usavano in via ufficiale per definire le deportazioni, non era che un eufemismo. Il loro intento non era certo proteggere dai bombardamenti, che scrosciavano su Berlino, ebrei come i Lewinsky o gli Jacobi. In realtà li avevano trasportati lontano, a est, in un campo di concentramento. I vicini di Oppenheimer sapevano, dalle voci che giravano, che erano destinati a morte sicura. Ma tutti, fino all’ultimo, quando era arrivata la Gestapo a caricarli sul vagone di un treno, non avevano voluto abbandonare la speranza che quelle paure sussurrate fossero soltanto un’esagerazione, che in qualche modo, alla fine, sarebbero riusciti a salvarsi la vita. Di sicuro la Gestapo sarebbe presto arrivata a prendersi anche il dottor Klein. La moglie ariana era morta ormai da una settimana, e lui non aveva più lo scudo del matrimonio misto. Eppure il dottore sperava, vista l’età avanzata, di andarsene a Theresienstadt, e considerava la cosa come il minore dei mali. Ancora un po’ e anche la sua stanza si sarebbe svuotata.

E ora anche Lisa aveva rischiato di lasciare tragicamente un vuoto incolmabile in quella casa. “Ho dimenticato di accendere il fuoco sotto l’acqua,” mormorò stordita. “Ero tanto agitata per Richard… volevo farmi un caffè d’orzo.”

“Per fortuna hanno chiuso il gas per l’allarme aereo, altrimenti poteva finire male, signora Oppenheimer,” disse il dottor Klein. Poi ripose i suoi strumenti nella logora valigetta da medico. Oppenheimer guardava pensoso i due stampati con il timbro della Gestapo affissi alla porta di fronte. “Purtroppo i Lewinsky non ci sono più. Altrimenti si sarebbero accorti senz’altro della puzza di gas.”

Il dottor Klein scrutava Lisa, seduta al tavolo. Il bollitore cominciò a fischiare. Su indicazione del dottore, Oppenheimer aveva messo dell’acqua a bollire.

“Be’, credo che ora le farebbe davvero bene un caffè d’orzo. Oppure, aspetti…” Klein si mise a frugare nella valigetta e, come per magia, tirò fuori alcuni chicchi di caffè. “Ecco, questi daranno un po’ di slancio alla sua circolazione sanguigna. Sempre meglio di quel vecchio surrogato,” disse.

Lanciare sul tavolo una pepita d’oro avrebbe avuto lo stesso effetto. Per qualche secondo dimenticarono persino l’incidente di Lisa, mentre il loro sguardo sbigottito si fissava sui chicchi di caffè vero. I cibi come carne, uova o latte erano razionati e venivano distribuiti prima di tutto ai cittadini “di sangue puro”. Le merci rare come i pomodori o i cavolfiori erano vietati agli ebrei. Tra gli abitanti della Judenhaus solo Lisa riceveva ogni tanto qualche grammo di caffè ariano. Veniva distribuito soprattutto in razioni speciali dopo i bombardamenti più massicci, motivo per cui ben presto tutti avevano cominciato a chiamarlo il “caffè delle bombe”. Oltre al loro effetto ritemprante, quei chicchi neri costituivano un mezzo efficace per tenere buona la popolazione.

Quando Oppenheimer macinò i chicchi di caffè, si domandò dove poteva essere il deposito segreto del medico. Dalla pesante corporatura si capiva bene che da qualche parte aveva delle scorte di cibo, ma fino a quel momento né la curiosità dei coinquilini né i saccheggi della Gestapo erano riusciti a portare alla luce una briciola di quelle provviste.

“Da quando abito qui se ne sono andati in tanti,” commentò il dottor Klein. “Da medico la cosa mi addolora, naturalmente, voi capirete; il giuramento di Ippocrate e tutto il resto. D’altra parte, però, comprendo anche che qualcuno, nella nostra situazione, voglia decidere da solo il momento della propria dipartita. Solo che la cosa non dovrebbe accadere per errore.”

Il vecchio medico fece l’occhiolino a Lisa. Voleva forse lasciare intendere che lei avesse aperto volontariamente il gas per uccidersi? Oppenheimer non capiva.

Lisa ignorò l’allusione del medico e diede un sorso alla bevanda fumante che Oppenheimer le aveva messo davanti.

“Ora sto bene,” mormorò. “Ci serve altra sabbia per le bombe incendiarie, Richard l’ha buttata. E poi il vecchio Schlesinger dovrà pensare a riparare la finestra rotta.”

Quando fece per alzarsi, Klein le appoggiò la mano sulla spalla. “Ora deve riposarsi, signora Oppenheimer. Avvertirò io il vecchio Schlesinger. È meglio che lei resti qui, signor Oppenheimer.” Negli occhi di Klein vi fu uno scintillio eloquente.

Lui capì. “Deve per forza…” si fermò per cercare le parole giuste, “denunciare questo incidente?”

“Se il nostro caro signor custode non me lo chiede, non sarò nemmeno costretto a mentire. Ma non si stupisca della bolletta del gas che le arriverà. Al suo posto pagherei senza fiatare.”

Dopo che il medico se ne fu andato, Oppenheimer abbracciò Lisa, seppure con imbarazzo. Si sentiva in colpa nei suoi confronti, era successo tutto per causa sua. Però a turbarlo non erano soltanto i rimorsi di coscienza. Negli ultimi anni, nel loro amore, si era insinuata la paura. Sapeva che per Lisa quello stato d’animo non era una novità, lei era sempre in pensiero per lui.

In fondo, alla polizia criminale, aveva avuto a che fare fin troppo spesso con personaggi loschi. Ma da quando erano cominciati i bombardamenti e da quando anche Lisa si trovava in costante pericolo di vita, Oppenheimer capiva quel che sua moglie aveva dovuto sopportare in tutti quegli anni. Quando Richard e Lisa non erano insieme, nei pensieri di sua moglie c’era sempre la paura che potesse succedergli qualcosa.

“Dove sei stato?” domandò lei.

“Non è successo niente. Un’indagine per omicidio, una storiaccia delle solite,” disse lui per tranquillizzarla.

“Ma tu non lavori più alla polizia criminale.”

“È vero, ma ho capito cosa volevano. E proprio da me. È una cosa da pazzi ma, a quanto pare, le SS avevano bisogno di me per una consulenza.”

Sentendo nominare le SS, Lisa ebbe un fremito. Nel suo sguardo c’era il panico.

“Nulla di grave,” disse Oppenheimer nel tentativo di tranquillizzarla. “Dopo mi hanno lasciato andare.”

“Devi sparire dalla circolazione,” disse Lisa con insistenza. “Subito. Non puoi più dormire qui. Ti prenderanno.”

“Non si faranno più vedere.”

“È troppo rischioso. Va’ da Hilde. E in ogni caso poi io vado da Hinrich. Avevo promesso a Eva di fare un salto da lei.”

“Hai sentito cos’ha detto il dottor Klein?” disse Oppenheimer nel modo più convincente possibile. “Non andare da Hinrich, devi riposarti. Adesso non posso lasciarti sola. E poi non è necessario andare a trovare Hilde tutte le domeniche.”

Lisa scosse la testa. “Non capisci. Lei ci ha aiutato. Può fare qualcosa per te. Hai detto che ha delle conoscenze. Conosce gente del movimento clandestino. È troppo pericoloso ora che ci sono entrate in casa pure le SS. Devi sparire!”

In un primo momento Oppenheimer rifiutò quell’idea, ma alla fine dovette ammettere che sua moglie aveva ragione. Hilde era ormai la sua unica speranza. “Va bene, magari si riesce a escogitare qualcosa. Ma non sarà necessario.”

“Richard, mi prometti che sparirai dalla circolazione?”

Oppenheimer borbottò qualcosa di incomprensibile. Odiava quando Lisa gli chiedeva di promettere. Era il suo modo di dare ordini.

Non era male allontanarsi dalla Judenhaus con l’arrivo del fine settimana. Benché Oppenheimer e Lisa avessero una vita matrimoniale senza screzi, alla lunga gli spazi angusti del luogo in cui abitavano erano diventati un motivo di tensione. Per questo, con il tempo, avevano preso l’abitudine, la domenica pomeriggio, di andarsene ognuno per conto proprio.

Quando Richard andava a trovare Hilde, Lisa lo accompagnava di rado. Lui sapeva che difficilmente un’altra gli avrebbe permesso di incontrarsi con un’amica, da solo, tutte le domeniche. Per quanto Lisa non avesse mai avuto alcuna tendenza alla gelosia, la disinvoltura con cui reagiva era singolare. Oppenheimer poteva soltanto ipotizzarne i motivi. Forse era perché Hilde aveva dieci anni e passa più di lui e quindi Lisa non la considerava una rivale. Forse c’entrava anche il fatto che, quando era da Hilde, Lisa aveva la certezza che fosse al sicuro. In effetti, Hilde aveva dimostrato in molte occasioni che su di lei si poteva contare.

Oppenheimer, a sua volta, negli ultimi anni aveva sempre incoraggiato Lisa a farsi delle amicizie: non voleva che dipendesse troppo da lui. Non poteva escludere la possibilità che, prima o poi, la Gestapo lo deportasse. Erano troppi gli ebrei sposati con ariane che erano già stati uccisi, per cui non poteva fare affidamento sul vantaggio di avere una moglie di razza pura.

Quando, alla fine, prese cappello e cappotto per andarsene, ebbe un attimo di esitazione. Tirò fuori dalla tasca un tubetto di farmaci. “Ecco, prendi questo,” disse mettendo in mano a Lisa una delle sue pastiglie di Pervitin.

La donna lo guardò perplessa. “Ma servono a te…”

“Io ne ho per un po’,” rispose mentendo, poi la salutò con un abbraccio. Lo angosciava il pensiero di doverla lasciare di nuovo, ma doveva andarsene.

Prima di uscire dalla porta di casa, prese anche lui una pastiglia. Non avendo acqua, la masticò e la ingoiò. A parte la preoccupazione che provava per Lisa, Oppenheimer era ormai diventato quasi del tutto insensibile. Negli ultimi mesi erano accadute troppe cose. Le morti erano ormai all’ordine del giorno. Anche il suo stesso destino era più o meno segnato. Però sapeva che in meno di mezz’ora il Pervitin avrebbe fatto effetto, e allora nulla l’avrebbe più scalfito. Una pastiglia gli dava l’energia necessaria per tirare avanti tutta la giornata. Dopo mesi di assunzione regolare l’efficacia aveva cominciato a diminuire a poco a poco, tanto che avrebbe dovuto aumentare la dose, ma per via delle scorte limitate si concedeva soltanto una pastiglia al giorno.

Rinfrancato, uscì in strada. Il puzzo degli incendi gli penetrò nel naso. La luce era fosca, il cielo coperto da una cortina di zolfo giallastro. Pur essendo soltanto le due del pomeriggio, guardando a est sembrava fosse già notte, date le nubi di fumo nero che avvolgevano il centro della città.

Per un istante, Oppenheimer pensò se non fosse meglio andare da Hilde con il tram o il metrò. Poi, però, scartò le due possibilità. Dopo l’attacco di quel giorno, gli orari delle corse dovevano essere tutti saltati. Per arrivare a casa di Hilde a piedi ci volevano poco meno di due ore. Come per una passeggiata domenicale, si incamminò perciò sull’Hansabrücke, diretto verso la Colonna della Vittoria.

Capitava di rado che i passanti reagissero male vedendo la stella di David. A volte facevano addirittura un cenno con la testa, in segno di comprensione. Davanti ai bambini e ai nazisti incalliti, però, bisognava fare attenzione. Negli ultimi mesi la Gestapo si era placata e sembrava ignorare gli ebrei rimasti in città. Doveva dipendere dal fatto che avevano problemi più grandi da risolvere dopo l’offensiva aerea degli Alleati, ma Oppenheimer stentava a fidarsi di quella tregua.

Prima la Gestapo aveva usato il pugno di ferro. Lui stesso ne sapeva qualcosa. Quasi due anni prima in metrò era caduto nelle grinfie di uno dei cosiddetti “accalappiacani” della Gestapo che gli aveva chiesto di seguirlo per controllare i documenti. Dopo di allora Oppenheimer aveva deciso che non avrebbe mai più tollerato una cosa del genere. Come molti altri, avrebbe potuto iniziare i pellegrinaggi all’Ufficio del Reich per le Questioni Razziali del Ministero dell’Interno, carico come un mulo di vecchie fotografie, certificati di famiglia e altri documenti, per dimostrare in qualche modo di non assomigliare troppo agli altri membri della sua famiglia. Se eri quello che chiamavano un Kuckuckskind, il figlio di un uomo diverso da quello che pensavi fosse tuo padre, o ancora meglio se eri adottato, potevi magari sperare di essere registrato come un Halbjude, un “mezzo ebreo”, o un Vierteljude, un “ebreo per un quarto”. Oppenheimer, però, non aveva nemmeno preso in considerazione quella possibilità. E ora, mentre camminava, cercava un modo per liberarsi della stella di David, senza farsi vedere.

Avvicinandosi alla Colonna della Vittoria, giunse il momento di portare a termine il suo personalissimo processo di arianizzazione.

All’altezza del Großer Stern, la “Grande Stella”, prese a sinistra. In quel luogo l’architetto del Reich Albert Speer aveva fatto spostare, oltre al gigantesco obelisco, anche il monumento a Bismarck. Come un gigante di bronzo, il primo cancelliere tedesco se ne stava là, in piedi, in disparte rispetto al traffico di quella rotatoria, sul suo piedistallo di granito rosso, attorniato dalle statue dei suoi ufficiali di rango più elevato, von Roon e von Moltke. Ognuno di quei generali aveva il suo piccolo spazio, delimitato all’interno del parco circostante da un muro di pietra non troppo alto. Quel giorno Oppenheimer scelse il monumento di Albrecht, conte di Roon.